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Venerdì, 03 Aprile 2015 15:08

Segno, materia...SOGNI

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Quando André Breton, figlio di quella Bretagna evocativa e remota, su cui tanti artisti, a partire da Gauguin avevano proiettato i propri desideri mistici e le proprie fantasie regressive, scrive il Manifesto del Surrealismo nel 1924, sono tanti e noti i riferimenti su cui costruisce il proprio programma creativo e la propria riflessione teorica. Freud sopra a tutti e la sua dottrina psicoanalitica, intesa come mezzo di indagine di quel mondo invisibile che è l’inconscio, dimensione altra che fluttua tra reale e inesistente, ma tutto condiziona. De Chirico, per quella capacità di librare le connessioni logiche, ricercando accostamenti nonsense o di senso altro, collocati al di là della ragione abituale; Duchamp, il maestro di tanti, per non dire di tutti coloro che hanno inteso scandagliare le vie, non solo possibili, ma anche improbabili della pratica artistica.

Se le teorie di Freud e le contemporanee ricerche sull’inconscio costituiscono i contributi indispensabili per individuare i presupposti dell’Espressionismo di avanguardia, oltre a Freud, anche Duchamp, De Chirico e il Surrealismo si pongono come momenti fondativi dell’Espressionismo di seconda generazione, che arriva all’Action painting e al Color field. Sarebbe stato difficile, se non impossibile, ottenere quella emancipazione dal tutto - dal reale, dal simile, dal verosimile, dal verosimigliante - che è l’Informale, in tutte le sue cospicue varianti di segno, gesto e materia, se non facendo riferimento a quelli che Breton indicava come cardini del Surrealismo. Primo fra tutti, il cardine dell’ “automatismo”, un erede intellettualmente più complesso e più elaborato della casualità dadaista, sperimentata in scrittura da Tzara e nelle arti visive da Duchamp. Secondo la definizione che ne dà Breton, si tratta di “automatismo psichico puro, con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale”.

Nella visione teorica di Breton, infatti, automatismo significava superamento del filtro (censura) razionale, affrancamento dal diktat della ragione, allentamento dei vincoli della logica e, dunque, alterazione del senso compiuto, dei legami naturali e consueti, così, come quando si dorme la realtà onirica del sonno prende il sopravvento, manipolando i rapporti e dando libero sfogo alle contraddizioni. Perché c’è un improvviso fragore di libertà nell’emanciparsi dalla ragione, nello svincolarsi dalla programmazione razionale, nel liberarsi dal giusto, dal corretto e dall’aspettativa, nell’aggirare il solido e il costruttivo; c’è inaspettata libertà nell’abbattere i vincoli della fantasia e gli intralci dell’immaginazione affinché la creatività prevalga su tutti e su tutto.

Alla luce di questa riflessione, cosa diventa, allora, l’Informale, soprattutto quello dell’ultima generazione? Informale così privilegiato dai nostri artisti contemporanei, che ancora vanno alla ricerca delle sue inesplorate possibilità espressive; artisti che, ancora, nell’Informale trovano la traccia su cui costruire il proprio gergo espressivo, il proprio lessico artistico, la propria narrazione figurativa o astratta che sia. E che all’Informale, infine, affidano con fiducia i contenuti autentici, posti a base della loro impresa creativa.

Ancora oggi, a tanti anni dalla sua prima apparizione, l’Informale mostra intatta la sua carica attrattiva perché metodo sperimentale capace di offrire innumerevoli occasioni espressive; diviene sistema e pratica, codice e alfabeto con cui irradiare tanti motivi e contenuti differenti, tanti quante sono le sensibilità e le anime degli artisti che lo scelgono come lingua prediletta della loro azione artistica.

Leonardo Serafini è uno tra gli artisti contemporanei che ha fatto dell’Informale la scelta prevalente della sua pittura, il regolamento e la disciplina delle sue creazioni artistiche: secondo modalità che variano tra la materia e il gesto, oppure, tra la materia e il segno, oppure facendo prevalere una delle varianti sulle altre (a volte la materia a volte il segno, raramente il solo gesto), Serafini ci regala un po’ di sogni, ci apre le distese sconfinate dello spazio onirico e visionario, ci conduce nel mondo incantato e un po’ oscuro dove l’artista smarrisce la sua ragione e modella le sue sensazioni primordiali.

Come non pensare che appartengano alle dimensioni del sogno e dell’inconscio, anche collettivo, le superfici materiche e le forme archetipe (alcune riecheggiano la croce) che emergono dai campi cromatici di Serafini? Come non pensare che quelle superfici di materia, talvolta liscia e distesa, talvolta aggrumata e, comunque, sempre lavorata con convinzione se non con disperazione, non siano il frutto del più profondo e soggettivo automatismo dell’artista che, libero da condizionamenti e costrizioni, lascia andare la sua fantasia e il suo entusiasmo creativo?

Automatismo casuale alla Duchamp certo, soprattutto automatismo automatico formatosi sullo sguardo e sull’analisi degli espressionisti astratti prima che sugli informali e, da quelli, pronto a carpire i segreti metodologici per comporre i suoi Color Field segmentati, accidentati e materici; un automatismo talmente accentuato e testato in tutte le sue variazioni cromatiche da divenire, in Serafini, automatismo lirico, tali sono le vette di poesia e di armonia che in tante opere raggiunge.

Pittore di razza, Serafini non dipinge, vola. Così come non guarda ma trasfigura. Il suo tocco è violento ma taumaturgico e la sua mano, che pure non accarezza, è risanatrice; i suoi colori non sono mai stesi sulla tela ma amalgamati: li impasta, li accosta e li stratifica, è veloce e inevitabile nel suo movimento giaculatorio; è tanto irrazionale e libero, quanto definitivo e imprevedibile nella sua dichiarazione d’amore alla tela... perché in questa pittura così carica, così ricca e seducente, apparentemente impulsiva c’è amore e anche odio, per l’arte, per la vita e per tutto ciò che si evidenzi con la sua implacabile potenza immaginativa.

Stupisce, in questo artista, l’incapacità di somigliare a sé stesso, l’impossibilità di ripetersi e la caparbietà con la quale segue qualsiasi stimolo creativo, qualsiasi accesso imprevisto che appaia sulla sua strada. Spirito curioso di natura, vigile e iperattivo, l’artista va a guardare dove quell’ingresso può condurre e quali implicazioni può comportare sul versante delle possibilità creative. Se, nelle “Terre di Spagna”, la visionarietà carica della materia (presente negli informali, negli astrattisti americani, nei surrealisti astratti ma anche nei grandi spagnoli) si impone allo spettatore con le sue campiture a volte lisce, a volte grezze, a volte sovraccariche ma mai scontate, la casualità automatica non sembra mai perdere un certo rigore compositivo, un certo rigore formale o in-formale. Pur nel soliloquio della materia, la composizione equilibrata regge all’impatto dell’immaginazione d’artista e si dispone secondo una misura classica di ordine quasi simmetrico, tanto nella disposizione cromatica, quanto nella struttura compositiva. I lampi-campi di luce e i contrasti luministici irrorano le tele e, di conseguenza, le campiture materiche accese dalla luminosità dei colori diventano le luci calde della Spagna, i raggi accesi della Costa del Sol o le suggestioni arcaiche dei Paesi Baschi del nord, ricordi e memorie psichiche che l’artista interpreta e spariglia sulla superfice vibrante delle tele.

Braccio calibrato e occhio di matematico esperto sono le peculiarità visive della serie “Pearl Harbor”: qui, Serafini dimentica la materia, fa un’ opera di sottrazione che coinvolge tutto, anche i colori che via via approdano ai margini più audaci del nero, sfocato, attenuato, ma nero; soprattutto, si riappropria del gesto e prima di tutto, con estrema convinzione, del segno. In “Pearl Harbor” è il segno che conta ed è il segno che fa la differenza. Ai limiti del nero, il segno, talvolta spesso talvolta sottile, intrecciato o squadrato, ora denso, ora liquido, delinea sul piano una cascata di linee e una odissea di trame, quasi che in quella superficie a dominare non sia altro che il caos, la confusione per qualcosa di inspiegabile e di inaspettato proprio come il titolo - “Pearl Harbor” appunto - lascia supporre.

Accanto a “Pearl Harbor”, forse addirittura una loro evoluzione, sembrano essere i profili delle città: qui, il brano di pittura e di bravura è tutto racchiuso nel trattamento materico/poetico dello skyline, il profilo accennato della metropoli compatta, riflessa sullo specchio dell’acqua. Ma i “Pearl Harbor” non sono le sole opere dove Serafini sottrae sostanza alla materia a favore del segno. Molti dipinti, infatti, mostrano una ricerca sulle capacità espressive del segno. Su una base di colore acquoso e velato, quasi fosse acquerello, trattato con delicata sensibilità cromatica, trame nere di diverso spessore disegnano volute, cerchi, semicerchi o rette, creazioni anch’esse automatiche seppure ispirate, che creano immagini suggestive e piacevoli assai prossime agli effetti della gouache.

Le “Terre di Spagna” e i “Pearl Harbor” non delimitano la produzione artistica di Serafini, molto più ampia e a volte disordinata ed emotiva, tanto da non essere sempre classificabile in generi o temi. Come un giocatore che tenta, e tentando il più delle volte riesce, Serafini spazia e concepisce un gruppo di opere che hanno il fulcro nell’occhio. Non è un caso. L’occhio è quello dell’artista, che vede dove agli altri è precluso; è l’ occhio della sensibilità attiva e del temperamento creativo che osserva, guarda, coglie e carpisce i segreti della natura e a volte del mondo. L’ occhio dell’artista che è anche un po’ l’ occhio di Dio, per quella sua capacità di creare e infondere vita alle cose. E qui, l’autore si fa abile cesellatore di piani, alcuni in rilievo; lascia la pittura e maneggia l’oreficeria perché solo un orefice può delineare tessiture così abili e così complicate e allo stesso tempo così ben accordate nei valori cromatici che le ravvivano.

Un artista poliedrico Leonardo Serafini, un artista versatile ma anche multiforme, complesso e sfaccettato, energico e composito. Un Uomo che tenta, che sperimenta e che si emoziona, facendoci di conseguenza emozionare. E, talvolta, mancare di parole per l’incanto ricevuto.

Sono molti, anzi troppi gli aggettivi che servirebbero a definire il profilo di questo spirito indagatore, di questo cercatore di forme, uno spirito e un temperamento che nella descrizione sintetica di una parola, nel suo significato più alto e più vero, può solo essere detto creativo.

Letto 1042 volte Ultima modifica il Martedì, 22 Settembre 2015 15:21
Loredana Finicelli

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