Tema I. Riflessioni materiche e altre divagazioni sentimentali
George Kubler, nel suo famoso saggio La forma del tempo, apriva le proprie riflessioni con una osservazione di grande interesse, relativa a quel particolare attributo estetico che connota l’oggetto artistico rispetto all’oggetto di uso comune, fosse anche di alto artigianato o splendido design.
Se l’utilità o la necessità di svolgere un qualsiasi compito si pone come la premessa prima e irrinunciabile alla progettazione e dunque alla realizzazione di un oggetto d’uso quotidiano, diverse sono le esigenze e le premesse che motivano la creazione di un’opera d’arte. Perché sarà ovvio sottolinearlo, ma non sembra scontato riaffermarlo, che categorie come uso, necessario, utile, strumentale e funzionale, non sono proprie dell’oggetto d’arte, il quale si pone, precisa e ricorda Kubler, come entità “unica e insostituibile”, versata molto più a varcare i territori onirici dello spirito e del rapimento mistico, che non quelli, pure nobilissimi, del mondo materiale e dell’utilità spicciola.
Se l’opera, come ebbe a dire Kant, non deve confondere il necessario con il bello, quali sono allora le occorrenze che l’arte attiva? Quali sono le priorità che mette in movimento, quali i sentimenti che tocca, quali, infine, le dinamiche che scatena, tali da fare di un manufatto un pezzo unico e irripetibile? E tali, ancora, da fare dell’esperienza della sua fruizione un istante lunghissimo di beatitudine, un momento nel quale l’essere si riconosce come parte armonica di un tutto?
Abituati a confrontarci con i grandi capolavori del passato, troppo spesso ci dimentichiamo che esperienze estetiche capaci di far vibrare le nostre corde emotive, a volte addormentate dalla noia, dal già visto o dal troppo ripetuto, sono invece ancora possibili e nuovamente esperibili nell’approccio con molti artisti contemporanei che quotidianamente vivono, praticandola, l’esperienza “dell’inutile ma indispensabile”, requisito irrinunciabile di chi frequenta i territori dell’arte. Perché l’arte, per questi artisti, significa coltivare con coraggio e determinazione il rapporto con l’inutilità costruttiva e apparente della creazione artistica, in quanto, proprio in quella terra di nessuno, dove si incontrano talento e ispirazione, così lontani dal proofitto e dalla produzione seriale, si collocano, invece, la sospensione del quotidiano e il recupero del vero sé stesso, la congiunzione con la dimensione più profonda del proprio essere e della propria soggettività. In questo interregno, equidistante tanto dalla realtà, quanto dall’assoluto, luogo forse dell’idea e dell’energia generativa e persuasiva del logos, dell’ethos e del pathos, mi pare si possa collocare l’esperienza creativa di Leonardo Serafini. Tanta infatti è la forza che caratterizza il suo gesto, tanto il clamore del suo grido creativo che solo una momentanea separazione dal mondo della ragione e della concretezza può giustificare. In quel territorio dell’immaginazione a tutti inaccessibile, in cui l’artista, ispirato e solo, si ricongiunge con l’essenza profonda dell’esistenza e dell’esistente, trovano forma le sue fantasie inespresse, trovano, sembianza apparente, le sue considerazioni personali sul tutto, vere e proprie epifanie di gesti, di segni e di materia, opere che in un singolo colpo di reni e in un unico urlo primordiale abbracciano, intere, tutte le esperienze del passato Informale e lo restituiscono trasfigurato ma attualizzato, rivitalizzato e noi, non possiamo che constatarne, l’essere ancora in vita e in salute.
Nella terra di nessuno, dove l’artista opera, in quello spazio che non è più vita quotidiana ma non è ancora spazio eterno, Serafini si rinchiude con sé stesso e la sua interiorità più vera, e lì, si mette alla prova. E prova. Tenta. Soluzioni diverse a problemi che solo lui conosce ed è in grado di elaborare e dunque risolvere. Tenta e prova. Colori, tecniche, azzardi materiali, casualità cromatiche, automatismi inconsci. Lascia scorrere le revisioni teoriche, le sviste concettuali, le riflessioni sul gusto; si arrabbia per gli incidenti formali e quel colore che non vira, così da inficiare la realizzazione di quella immagine interiore che pare non corrispondere alla tela, ma che alla fine ha una sua intrinseca perfezione.. Ed ecco, allora, apparire le disarmonie cromatiche, poche, ma presenti; le alterazioni della forma, le disarticolazioni luministiche che, nel loro insieme, non solo non stonano, ma restituiscono un tutto magicamente composto, un tutto in equilibrio perfetto che prima di essere armonia della composizione è armonia del mondo e del cosmo, armonia dell’anima. Nella sua gestualità esagerata e nella sua materia carica, Serafini, splendido autodidatta, rilegge il Novecento e lo rinfranca, lo consolida con tratti e immagini nuove. E il pensiero non può che correre alle grandi epopee astratte di Afro, con cui l’artista marchigiano dialoga a distanza, ampliando, però, in termini di massa e impeto ciò che in Afro era riflessione sulle proprietà formali dell’astratto, un astratto condotto talvolta per sottrazione e non per aggiunte come in Serafini. Questa serie di omaggi al pittore friulano, Serafini l’ha dedicata alle città spagnole. Le tele, infatti, che variano dal medio al grande formato, hanno come titolo Bilbao, San Pedro, e della Spagna hanno i colori intensi e la luce brillante; la solarità della Costa del sol è tutta rappresa in queste opere che sono il frutto della sperimentazione più audace, che prevede l’uso di diversi materiali come vernici, stucchi, acido nitrico e anche di elementi che provengono dalla vita quotidiana (il caffè, o addirittura, o come ultimamente il bitume) armonizzati in un unico tutto.. All’astratto ragionato e più mentale di tanti artisti, Serafini sostituisce l’astratto della forza e del gesto, mediato attraverso un uso capace della materia, che non è mai grezza ma lavorata, amalgamata, a volta anche incisa con segni che disegnano delle trame, delle tessiture magari casuali. Così, forma, colore, materia e segno, nelle loro mille variabili, nelle loro mille combinazioni diventano la cifra stilistica di questo artista che passa da quadri interamente astratti a tele più apparentemente figurative o semifigurative. Nel gioco tra astratto e semifigurativo si compie infatti il suo iter creativo, in una continua serie di rimpalli mentali che sondano le opportunità dell’espressione artistica, in una riflessione sulle possibilità sperimentali dell’arte che sembra protrarsi all’infinito, senza tregua e costantemente in progress. A testimonianza di come tutte le opere di Serafini sappiano dialogare tra loro e siano solo all’apparenza espressioni diverse, ma in realtà forme interiori di un disegno unitario che è chiarissimo nella mente dell’ artista, il segno solo accennato ed emergente nei dipinti “Terre di Spagna” si affaccia con evidenza nella raccolta dedicata a “Perl Harbor”, un titolo scivoloso e pericolosissimo, un titolo in cui si nascondono insidie e fraintendimenti, perché troppo facile è la connessione con la Pearl Harbor della storia e con le sue immagini di rimando, con le contaminazioni, anche visive, che quelle vicende suscitano. Il tema è dunque rischioso, perché troppo facile è scorgere in quei dipinti il caos del bombardamento, le luci dei fuochi, i lampi delle esplosioni che, in alcuni casi, arrivano a colorare di un giallo intenso il cielo. Ma le Pearl Harbor di Serafini sono delle lezioni di stile, perché nulla è scontato e niente è banale nella sua opera. In quella fitta trama di segni e vele, impressioni di lamiere e metalli, l’unico caos a cui l’artista allude è quello del caso. A quel caso che guida la mano e disegna, anzi, più precisamente, evoca frammenti di navi alla deriva, tralci di alberi oramai poco maestri, residui di fregate fuori combattimento, bandiere a pezzi e strappate. Proprio come nei grandi eventi della storia è il caso che governa il flusso dei fatti e pertanto la tragedia di Perl Harbor finisce per salvare l’Europa dal nazismo, anche nella pittura di questo artista è la lotteria del caso che regge l’esplosione della pittura, in segni, luci e colori. Non parliamo, ovviamente, del caso casuale o del caso caotico, bensì del caso d’artista, che è ben diverso dalla semplice coincidenza e ben lontano dalla sola fortuna, perché è prima di tutto talento e destrezza, dominio dei mezzi pittorici, abilità evocativa, carica visionaria, tutte doti e caratteristiche che l’arte di Serafini possiede in eccedenza.