Loredana Finicelli
Skylines. Città oniriche e labirinti della memoria.
Ci sono immagini che per la lor natura intrinseca appartengono alla dimensione dello spirito, molto più che a quella ravvisabile della natura; immagini costituite di sostanza psichica, di echi di memorie non sopite, che si riflettono e si rinfrangono sull’immaginario individuale e collettivo, andando a costituire un patrimonio e un repertorio di riferimento.
Sono immagini assai più simili alle visioni che alle vedute, che a volte hanno il rombo del flash, a volte l’afflato lirico della dissolvenza, la lentezza intermittente di una impressione che sfuma in lontananza. Immagini a volte generate da un moto dinamico e vorticoso, a volte adagiate sul crinale impercettibile della evanescenza, pur suggerendo profili noti, riconoscibili all’esperienza di chiunque accetti la sfida di misurare la propria fantasia – lasciando a casa la ragione – con essi.
Skilines dinamici, mossi e fluttuanti, oppure trasparenti come nebbia ed evanescenti come aria, eppure netti, riconoscibili e distinti nell’esperienza di chi guarda e li incamera nella memoria come profili di città immaginarie, attinenti più alla psiche o all’inconscio che alla natura materiale. Sospese in quel limbo di realtà e improvvisazione, in attesa di una decodifica risolutiva che le estragga dal mondo dell’essenza, le città oniriche sono i luoghi del tutto e del niente, del domani improvvisato e di un passato che malgrado tutto resiste.
Le città oniriche di Leonardo Serafini, sono immagini ardenti, che emergono da un mix di spatola pesante e pennello ispirato, in un tripudio di forme mnemoniche e cromatismi esagerati o silenti, così sommessi da arrivare al margine della dissoluzione metafisica.
Perché Serafini è così. Capace di vette e di strapiombi improvvisi. Capace di altezze cromatiche irraggiungibili e poi, a seguire, di discese arditissime lungo le pendici di un colore attonito e di una che esplode e si ricompatta in unico gesto generativo; unico nel condurre il colore allo spasmo, tirandolo al limite estremo del suo ultimo tono, facendolo scomparire nelle sue mille trasparenze e nebbie; unico nel definire la città e il suo profilo con la forza viva dell’immaginazione e, poi, con la stessa, identica, forza, farla deflagrare su stessa.
Marchigiano di nascita e autodidatta di elezione, Leopnardo Serafini è un artista che, pur non essendo emanazione di un contesto accademico e colto, nasce però c on il crisma della tradizione addosso, con impresso il meme della grande avventura artistica mediterranea. Un artista che porta con sé, in modo del tutto innato, un senso del colore e della composizione scenica, che, in parte inconsapevolmente, riflette e rigenera la grande stagione del Neocubismo novecentesco e dell’Informale europeo, versante gesto e materia. Ma è un artista che per la vemenza che lo caratterizza, , per la prorompente forza espressiva che emerge dalle tele, per gli squarci visionari che preludono a scenari underground, non è neanche estraneo a certe suggestioni Neoespressioniste, sebbene prive del carico angoscioso ed esistenziale di quelle prove.
Quale sintesi dei linguaggi della modernità, Serafini modella skylines immaginari, da intendere come espressione dei labirinti della memoria e profili come visioni immaginifiche, altamente ispirate.
In questo, e non solo, Serafini interpreta un desiderio comune di fuga, un’astrazione che allo stesso tempo è forma del reale e recesso magico della immaginazione.
Rendez Vous
Tema I. Riflessioni materiche e altre divagazioni sentimentali
George Kubler, nel suo famoso saggio La forma del tempo, apriva le proprie riflessioni con una osservazione di grande interesse, relativa a quel particolare attributo estetico che connota l’oggetto artistico rispetto all’oggetto di uso comune, fosse anche di alto artigianato o splendido design.
Se l’utilità o la necessità di svolgere un qualsiasi compito si pone come la premessa prima e irrinunciabile alla progettazione e dunque alla realizzazione di un oggetto d’uso quotidiano, diverse sono le esigenze e le premesse che motivano la creazione di un’opera d’arte. Perché sarà ovvio sottolinearlo, ma non sembra scontato riaffermarlo, che categorie come uso, necessario, utile, strumentale e funzionale, non sono proprie dell’oggetto d’arte, il quale si pone, precisa e ricorda Kubler, come entità “unica e insostituibile”, versata molto più a varcare i territori onirici dello spirito e del rapimento mistico, che non quelli, pure nobilissimi, del mondo materiale e dell’utilità spicciola.
Se l’opera, come ebbe a dire Kant, non deve confondere il necessario con il bello, quali sono allora le occorrenze che l’arte attiva? Quali sono le priorità che mette in movimento, quali i sentimenti che tocca, quali, infine, le dinamiche che scatena, tali da fare di un manufatto un pezzo unico e irripetibile? E tali, ancora, da fare dell’esperienza della sua fruizione un istante lunghissimo di beatitudine, un momento nel quale l’essere si riconosce come parte armonica di un tutto?
Abituati a confrontarci con i grandi capolavori del passato, troppo spesso ci dimentichiamo che esperienze estetiche capaci di far vibrare le nostre corde emotive, a volte addormentate dalla noia, dal già visto o dal troppo ripetuto, sono invece ancora possibili e nuovamente esperibili nell’approccio con molti artisti contemporanei che quotidianamente vivono, praticandola, l’esperienza “dell’inutile ma indispensabile”, requisito irrinunciabile di chi frequenta i territori dell’arte. Perché l’arte, per questi artisti, significa coltivare con coraggio e determinazione il rapporto con l’inutilità costruttiva e apparente della creazione artistica, in quanto, proprio in quella terra di nessuno, dove si incontrano talento e ispirazione, così lontani dal proofitto e dalla produzione seriale, si collocano, invece, la sospensione del quotidiano e il recupero del vero sé stesso, la congiunzione con la dimensione più profonda del proprio essere e della propria soggettività. In questo interregno, equidistante tanto dalla realtà, quanto dall’assoluto, luogo forse dell’idea e dell’energia generativa e persuasiva del logos, dell’ethos e del pathos, mi pare si possa collocare l’esperienza creativa di Leonardo Serafini. Tanta infatti è la forza che caratterizza il suo gesto, tanto il clamore del suo grido creativo che solo una momentanea separazione dal mondo della ragione e della concretezza può giustificare. In quel territorio dell’immaginazione a tutti inaccessibile, in cui l’artista, ispirato e solo, si ricongiunge con l’essenza profonda dell’esistenza e dell’esistente, trovano forma le sue fantasie inespresse, trovano, sembianza apparente, le sue considerazioni personali sul tutto, vere e proprie epifanie di gesti, di segni e di materia, opere che in un singolo colpo di reni e in un unico urlo primordiale abbracciano, intere, tutte le esperienze del passato Informale e lo restituiscono trasfigurato ma attualizzato, rivitalizzato e noi, non possiamo che constatarne, l’essere ancora in vita e in salute.
Nella terra di nessuno, dove l’artista opera, in quello spazio che non è più vita quotidiana ma non è ancora spazio eterno, Serafini si rinchiude con sé stesso e la sua interiorità più vera, e lì, si mette alla prova. E prova. Tenta. Soluzioni diverse a problemi che solo lui conosce ed è in grado di elaborare e dunque risolvere. Tenta e prova. Colori, tecniche, azzardi materiali, casualità cromatiche, automatismi inconsci. Lascia scorrere le revisioni teoriche, le sviste concettuali, le riflessioni sul gusto; si arrabbia per gli incidenti formali e quel colore che non vira, così da inficiare la realizzazione di quella immagine interiore che pare non corrispondere alla tela, ma che alla fine ha una sua intrinseca perfezione.. Ed ecco, allora, apparire le disarmonie cromatiche, poche, ma presenti; le alterazioni della forma, le disarticolazioni luministiche che, nel loro insieme, non solo non stonano, ma restituiscono un tutto magicamente composto, un tutto in equilibrio perfetto che prima di essere armonia della composizione è armonia del mondo e del cosmo, armonia dell’anima. Nella sua gestualità esagerata e nella sua materia carica, Serafini, splendido autodidatta, rilegge il Novecento e lo rinfranca, lo consolida con tratti e immagini nuove. E il pensiero non può che correre alle grandi epopee astratte di Afro, con cui l’artista marchigiano dialoga a distanza, ampliando, però, in termini di massa e impeto ciò che in Afro era riflessione sulle proprietà formali dell’astratto, un astratto condotto talvolta per sottrazione e non per aggiunte come in Serafini. Questa serie di omaggi al pittore friulano, Serafini l’ha dedicata alle città spagnole. Le tele, infatti, che variano dal medio al grande formato, hanno come titolo Bilbao, San Pedro, e della Spagna hanno i colori intensi e la luce brillante; la solarità della Costa del sol è tutta rappresa in queste opere che sono il frutto della sperimentazione più audace, che prevede l’uso di diversi materiali come vernici, stucchi, acido nitrico e anche di elementi che provengono dalla vita quotidiana (il caffè, o addirittura, o come ultimamente il bitume) armonizzati in un unico tutto.. All’astratto ragionato e più mentale di tanti artisti, Serafini sostituisce l’astratto della forza e del gesto, mediato attraverso un uso capace della materia, che non è mai grezza ma lavorata, amalgamata, a volta anche incisa con segni che disegnano delle trame, delle tessiture magari casuali. Così, forma, colore, materia e segno, nelle loro mille variabili, nelle loro mille combinazioni diventano la cifra stilistica di questo artista che passa da quadri interamente astratti a tele più apparentemente figurative o semifigurative. Nel gioco tra astratto e semifigurativo si compie infatti il suo iter creativo, in una continua serie di rimpalli mentali che sondano le opportunità dell’espressione artistica, in una riflessione sulle possibilità sperimentali dell’arte che sembra protrarsi all’infinito, senza tregua e costantemente in progress. A testimonianza di come tutte le opere di Serafini sappiano dialogare tra loro e siano solo all’apparenza espressioni diverse, ma in realtà forme interiori di un disegno unitario che è chiarissimo nella mente dell’ artista, il segno solo accennato ed emergente nei dipinti “Terre di Spagna” si affaccia con evidenza nella raccolta dedicata a “Perl Harbor”, un titolo scivoloso e pericolosissimo, un titolo in cui si nascondono insidie e fraintendimenti, perché troppo facile è la connessione con la Pearl Harbor della storia e con le sue immagini di rimando, con le contaminazioni, anche visive, che quelle vicende suscitano. Il tema è dunque rischioso, perché troppo facile è scorgere in quei dipinti il caos del bombardamento, le luci dei fuochi, i lampi delle esplosioni che, in alcuni casi, arrivano a colorare di un giallo intenso il cielo. Ma le Pearl Harbor di Serafini sono delle lezioni di stile, perché nulla è scontato e niente è banale nella sua opera. In quella fitta trama di segni e vele, impressioni di lamiere e metalli, l’unico caos a cui l’artista allude è quello del caso. A quel caso che guida la mano e disegna, anzi, più precisamente, evoca frammenti di navi alla deriva, tralci di alberi oramai poco maestri, residui di fregate fuori combattimento, bandiere a pezzi e strappate. Proprio come nei grandi eventi della storia è il caso che governa il flusso dei fatti e pertanto la tragedia di Perl Harbor finisce per salvare l’Europa dal nazismo, anche nella pittura di questo artista è la lotteria del caso che regge l’esplosione della pittura, in segni, luci e colori. Non parliamo, ovviamente, del caso casuale o del caso caotico, bensì del caso d’artista, che è ben diverso dalla semplice coincidenza e ben lontano dalla sola fortuna, perché è prima di tutto talento e destrezza, dominio dei mezzi pittorici, abilità evocativa, carica visionaria, tutte doti e caratteristiche che l’arte di Serafini possiede in eccedenza.
Segno, materia...SOGNI
Quando André Breton, figlio di quella Bretagna evocativa e remota, su cui tanti artisti, a partire da Gauguin avevano proiettato i propri desideri mistici e le proprie fantasie regressive, scrive il Manifesto del Surrealismo nel 1924, sono tanti e noti i riferimenti su cui costruisce il proprio programma creativo e la propria riflessione teorica. Freud sopra a tutti e la sua dottrina psicoanalitica, intesa come mezzo di indagine di quel mondo invisibile che è l’inconscio, dimensione altra che fluttua tra reale e inesistente, ma tutto condiziona. De Chirico, per quella capacità di librare le connessioni logiche, ricercando accostamenti nonsense o di senso altro, collocati al di là della ragione abituale; Duchamp, il maestro di tanti, per non dire di tutti coloro che hanno inteso scandagliare le vie, non solo possibili, ma anche improbabili della pratica artistica.
Se le teorie di Freud e le contemporanee ricerche sull’inconscio costituiscono i contributi indispensabili per individuare i presupposti dell’Espressionismo di avanguardia, oltre a Freud, anche Duchamp, De Chirico e il Surrealismo si pongono come momenti fondativi dell’Espressionismo di seconda generazione, che arriva all’Action painting e al Color field. Sarebbe stato difficile, se non impossibile, ottenere quella emancipazione dal tutto - dal reale, dal simile, dal verosimile, dal verosimigliante - che è l’Informale, in tutte le sue cospicue varianti di segno, gesto e materia, se non facendo riferimento a quelli che Breton indicava come cardini del Surrealismo. Primo fra tutti, il cardine dell’ “automatismo”, un erede intellettualmente più complesso e più elaborato della casualità dadaista, sperimentata in scrittura da Tzara e nelle arti visive da Duchamp. Secondo la definizione che ne dà Breton, si tratta di “automatismo psichico puro, con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale”.
Nella visione teorica di Breton, infatti, automatismo significava superamento del filtro (censura) razionale, affrancamento dal diktat della ragione, allentamento dei vincoli della logica e, dunque, alterazione del senso compiuto, dei legami naturali e consueti, così, come quando si dorme la realtà onirica del sonno prende il sopravvento, manipolando i rapporti e dando libero sfogo alle contraddizioni. Perché c’è un improvviso fragore di libertà nell’emanciparsi dalla ragione, nello svincolarsi dalla programmazione razionale, nel liberarsi dal giusto, dal corretto e dall’aspettativa, nell’aggirare il solido e il costruttivo; c’è inaspettata libertà nell’abbattere i vincoli della fantasia e gli intralci dell’immaginazione affinché la creatività prevalga su tutti e su tutto.
Alla luce di questa riflessione, cosa diventa, allora, l’Informale, soprattutto quello dell’ultima generazione? Informale così privilegiato dai nostri artisti contemporanei, che ancora vanno alla ricerca delle sue inesplorate possibilità espressive; artisti che, ancora, nell’Informale trovano la traccia su cui costruire il proprio gergo espressivo, il proprio lessico artistico, la propria narrazione figurativa o astratta che sia. E che all’Informale, infine, affidano con fiducia i contenuti autentici, posti a base della loro impresa creativa.
Ancora oggi, a tanti anni dalla sua prima apparizione, l’Informale mostra intatta la sua carica attrattiva perché metodo sperimentale capace di offrire innumerevoli occasioni espressive; diviene sistema e pratica, codice e alfabeto con cui irradiare tanti motivi e contenuti differenti, tanti quante sono le sensibilità e le anime degli artisti che lo scelgono come lingua prediletta della loro azione artistica.
Leonardo Serafini è uno tra gli artisti contemporanei che ha fatto dell’Informale la scelta prevalente della sua pittura, il regolamento e la disciplina delle sue creazioni artistiche: secondo modalità che variano tra la materia e il gesto, oppure, tra la materia e il segno, oppure facendo prevalere una delle varianti sulle altre (a volte la materia a volte il segno, raramente il solo gesto), Serafini ci regala un po’ di sogni, ci apre le distese sconfinate dello spazio onirico e visionario, ci conduce nel mondo incantato e un po’ oscuro dove l’artista smarrisce la sua ragione e modella le sue sensazioni primordiali.
Come non pensare che appartengano alle dimensioni del sogno e dell’inconscio, anche collettivo, le superfici materiche e le forme archetipe (alcune riecheggiano la croce) che emergono dai campi cromatici di Serafini? Come non pensare che quelle superfici di materia, talvolta liscia e distesa, talvolta aggrumata e, comunque, sempre lavorata con convinzione se non con disperazione, non siano il frutto del più profondo e soggettivo automatismo dell’artista che, libero da condizionamenti e costrizioni, lascia andare la sua fantasia e il suo entusiasmo creativo?
Automatismo casuale alla Duchamp certo, soprattutto automatismo automatico formatosi sullo sguardo e sull’analisi degli espressionisti astratti prima che sugli informali e, da quelli, pronto a carpire i segreti metodologici per comporre i suoi Color Field segmentati, accidentati e materici; un automatismo talmente accentuato e testato in tutte le sue variazioni cromatiche da divenire, in Serafini, automatismo lirico, tali sono le vette di poesia e di armonia che in tante opere raggiunge.
Pittore di razza, Serafini non dipinge, vola. Così come non guarda ma trasfigura. Il suo tocco è violento ma taumaturgico e la sua mano, che pure non accarezza, è risanatrice; i suoi colori non sono mai stesi sulla tela ma amalgamati: li impasta, li accosta e li stratifica, è veloce e inevitabile nel suo movimento giaculatorio; è tanto irrazionale e libero, quanto definitivo e imprevedibile nella sua dichiarazione d’amore alla tela... perché in questa pittura così carica, così ricca e seducente, apparentemente impulsiva c’è amore e anche odio, per l’arte, per la vita e per tutto ciò che si evidenzi con la sua implacabile potenza immaginativa.
Stupisce, in questo artista, l’incapacità di somigliare a sé stesso, l’impossibilità di ripetersi e la caparbietà con la quale segue qualsiasi stimolo creativo, qualsiasi accesso imprevisto che appaia sulla sua strada. Spirito curioso di natura, vigile e iperattivo, l’artista va a guardare dove quell’ingresso può condurre e quali implicazioni può comportare sul versante delle possibilità creative. Se, nelle “Terre di Spagna”, la visionarietà carica della materia (presente negli informali, negli astrattisti americani, nei surrealisti astratti ma anche nei grandi spagnoli) si impone allo spettatore con le sue campiture a volte lisce, a volte grezze, a volte sovraccariche ma mai scontate, la casualità automatica non sembra mai perdere un certo rigore compositivo, un certo rigore formale o in-formale. Pur nel soliloquio della materia, la composizione equilibrata regge all’impatto dell’immaginazione d’artista e si dispone secondo una misura classica di ordine quasi simmetrico, tanto nella disposizione cromatica, quanto nella struttura compositiva. I lampi-campi di luce e i contrasti luministici irrorano le tele e, di conseguenza, le campiture materiche accese dalla luminosità dei colori diventano le luci calde della Spagna, i raggi accesi della Costa del Sol o le suggestioni arcaiche dei Paesi Baschi del nord, ricordi e memorie psichiche che l’artista interpreta e spariglia sulla superfice vibrante delle tele.
Braccio calibrato e occhio di matematico esperto sono le peculiarità visive della serie “Pearl Harbor”: qui, Serafini dimentica la materia, fa un’ opera di sottrazione che coinvolge tutto, anche i colori che via via approdano ai margini più audaci del nero, sfocato, attenuato, ma nero; soprattutto, si riappropria del gesto e prima di tutto, con estrema convinzione, del segno. In “Pearl Harbor” è il segno che conta ed è il segno che fa la differenza. Ai limiti del nero, il segno, talvolta spesso talvolta sottile, intrecciato o squadrato, ora denso, ora liquido, delinea sul piano una cascata di linee e una odissea di trame, quasi che in quella superficie a dominare non sia altro che il caos, la confusione per qualcosa di inspiegabile e di inaspettato proprio come il titolo - “Pearl Harbor” appunto - lascia supporre.
Accanto a “Pearl Harbor”, forse addirittura una loro evoluzione, sembrano essere i profili delle città: qui, il brano di pittura e di bravura è tutto racchiuso nel trattamento materico/poetico dello skyline, il profilo accennato della metropoli compatta, riflessa sullo specchio dell’acqua. Ma i “Pearl Harbor” non sono le sole opere dove Serafini sottrae sostanza alla materia a favore del segno. Molti dipinti, infatti, mostrano una ricerca sulle capacità espressive del segno. Su una base di colore acquoso e velato, quasi fosse acquerello, trattato con delicata sensibilità cromatica, trame nere di diverso spessore disegnano volute, cerchi, semicerchi o rette, creazioni anch’esse automatiche seppure ispirate, che creano immagini suggestive e piacevoli assai prossime agli effetti della gouache.
Le “Terre di Spagna” e i “Pearl Harbor” non delimitano la produzione artistica di Serafini, molto più ampia e a volte disordinata ed emotiva, tanto da non essere sempre classificabile in generi o temi. Come un giocatore che tenta, e tentando il più delle volte riesce, Serafini spazia e concepisce un gruppo di opere che hanno il fulcro nell’occhio. Non è un caso. L’occhio è quello dell’artista, che vede dove agli altri è precluso; è l’ occhio della sensibilità attiva e del temperamento creativo che osserva, guarda, coglie e carpisce i segreti della natura e a volte del mondo. L’ occhio dell’artista che è anche un po’ l’ occhio di Dio, per quella sua capacità di creare e infondere vita alle cose. E qui, l’autore si fa abile cesellatore di piani, alcuni in rilievo; lascia la pittura e maneggia l’oreficeria perché solo un orefice può delineare tessiture così abili e così complicate e allo stesso tempo così ben accordate nei valori cromatici che le ravvivano.
Un artista poliedrico Leonardo Serafini, un artista versatile ma anche multiforme, complesso e sfaccettato, energico e composito. Un Uomo che tenta, che sperimenta e che si emoziona, facendoci di conseguenza emozionare. E, talvolta, mancare di parole per l’incanto ricevuto.
Sono molti, anzi troppi gli aggettivi che servirebbero a definire il profilo di questo spirito indagatore, di questo cercatore di forme, uno spirito e un temperamento che nella descrizione sintetica di una parola, nel suo significato più alto e più vero, può solo essere detto creativo.
Di SEGNO - In MATERIA
Di segno in segno, di materia in materia sono queste le direttrici estetiche su cui si sviluppa l’attività artstica di Leonardo Serafini. Di segno in segno non vuol dire la mera somma delle linee e dei tratti, ma la tessitura armonica e avveduta che scaturisce dalla moltiplicazione dei segni o, ancora meglio, dalla loro elevazione a potenza, perché solo in quel modo sono in grado di sviluppare quel valore artistico originalissimo e del tutto personale che si nasconde in quella apparentemente casuale successione di linee.
Di materia in materia perché nulla come l’opera di Serafini è un inno alla corposità del colore, un poema dedicato alla bellezza dello spessore cromatico che in alcune opere è talmente marcato da farsi quasi trama scultorea che corre in superficie.
Serafini è un artista sperimentale, un sognatore e un esploratore che tenta la conversione magica dei colori sgargianti, immacolati, pastosi e liquidi; delle tecniche, sorprendenti e imprevedibili; delle superfici trattate, abrase, scarnificate; delle carte, acidificate, sfatte, inumidite, abusate; uno sperimentatore che non si sa fermare, neanche davanti a se stesso.
Procacciatore di emozioni, l’artista marchigiano ha in mano un pennello e nell’altra la sua personale ars combinatoria con la quale prova a sondare e poi limare e poi perfezionare e infine liberare i meccanismi segreti della visione. Ed è una visione che non trova mai la sua quiete, una visione che si rinnova a ogni percezione, una visione che come una metamorfosi senza fine, cambia e si modifica incessantemente in relazione allo spazio immaginativo e alla spinta creativa che l’artista ha a disposizione.
A volte manca una cifra, eppure l’evoluzione artistica si disegna coerente nello spazio mentale dello spettatore che, seguendo gli esordi, giunge e cogliere le varie tappe della sua ricerca svolta in maniera costante e ripetuta tra i cardini formali della materia, del segno e del gesto, differentemente articolati secondo le sensibilità del momento.
Ma Serafini non è solo l’esploratore che spazia è anche e soprattutto il mago che sorprende con i suoi giochi di prestigio, a patto che il cilindro sia la tela e il coniglio i colori: quando queste condizioni si verificano, non c’è limite alla possibilità di essere sorpresi e sedotti dalla sua ammaliante pittura.